Alzi la mano chi si è stufato di leggere elogi del fallimento. Beh, siamo in tanti.
In nostro soccorso è arrivato un articolo su Kellog’s Insight basato sulla ricerca “The Exaggerated Benefits of Failure.“
L’articolo mette in discussione un concetto che molti di noi hanno sentito ripetere spesso: fallire fa bene, perché ci rende più forti e ci avvicina al successo .
È un’idea che risuona nei discorsi motivazionali e, in un certo senso, viene celebrata anche nella letteratura 📚.
Pensiamo a Samuel Beckett, che nel suo celebre aforisma diceva: “Ho sempre tentato. Ho sempre fallito. Non importa. Prova ancora. Fallisci ancora. Fallisci meglio.”
Anche autori come Oscar Wilde hanno riconosciuto il valore del fallimento, dicendo che “il fallimento è la base del successo, e il miglior modo per crescere.“
Ma secondo la ricerca di Lauren Eskreis-Winkler e colleghi (https://bit.ly/3XC8H6j), questa visione romantica del fallimento rischia di essere fuorviante .
Siamo abituati a vederlo come una tappa obbligata verso il trionfo, quasi come se fosse una formula magica che trasforma gli errori in successi, ma la realtà è molto più complessa.
Figure come Beckett ci hanno spinto a credere che fallire sia una forma di progresso, ma i dati dimostrano che spesso sovrastimiamo quanto effettivamente impariamo dai nostri errori 📉. Non è solo una questione di semplice pessimismo, ma di un ottimismo forse eccessivo e poco fondato.
Gli studi condotti mostrano che sovrastimiamo sistematicamente le possibilità di successo dopo un fallimento iniziale.
Per esempio, ai partecipanti è stato chiesto di stimare quanti studenti di giurisprudenza che avevano fallito l’esame di abilitazione al primo tentativo l’avrebbero superato al secondo. Le stime erano molto più alte rispetto alla realtà: si pensava che il 58% degli studenti avrebbe avuto successo, mentre in realtà solo il 35% ce la faceva 🎓.
Perché ci lasciamo ingannare? In parte perché, come diceva Wilde, “l’esperienza è semplicemente il nome che diamo ai nostri errori.”
Ci piace pensare che ogni errore ci porti a un passo dal successo, ma la verità è che molti non si soffermano davvero a riflettere sui propri fallimenti.
Guardare in faccia i nostri errori è scomodo, e spesso preferiamo passarci sopra senza fare il lavoro profondo necessario per trasformare quegli errori in vere lezioni di vita.
Uno degli studi più emblematici riguarda il trattamento delle dipendenze. I partecipanti sovrastimavano la probabilità che una persona che aveva vissuto un’overdose non fatale cercasse subito aiuto, convinti che il fallimento spingesse automaticamente al cambiamento.
La realtà, però, è ben diversa: chi ha vissuto un’esperienza traumatica spesso non è pronto a cambiare subito. E questa falsa convinzione ci porta a sottovalutare la necessità di offrire un vero supporto.
Questo “failure gap” – il divario tra ciò che pensiamo e ciò che accade realmente – non riguarda solo le esperienze personali, ma ha anche conseguenze sociali.
Se pensiamo che tutti siano più resilienti di quanto non lo siano davvero, rischiamo di tagliare i fondi necessari per programmi di sostegno. Al contrario, quando alle persone vengono presentate statistiche realistiche sui tassi di successo dei programmi di recupero o di reintegrazione, il loro supporto per queste iniziative aumenta.
Ma se continuiamo a vedere il fallimento come una semplice porta verso il successo, rischiamo di abbandonare chi ha più bisogno.
La lezione di Eskreis-Winkler è chiara: smettiamo di idealizzare il fallimento.
Certo, Beckett e Wilde ci hanno insegnato a non temerlo, e il fallimento fa parte della vita, ma per trasformarlo davvero in una lezione utile, dobbiamo guardarlo senza filtri.
Solo così possiamo imparare dai nostri errori, senza illusioni, e costruire supporti migliori per chi sta lottando, sia a livello individuale che sociale.
Qui trovate l’articolo: https://bit.ly/3zgotMo